Parlare di Aglianico equivale a parlare di viticoltura, tanto è consolidato il rapporto di questo territoriale d’eccellenza con la nostra Penisola. Le prime tracce – in letteratura – risalgono addirittura all’epoca romana, anche se Plinio e altri storici (oltre a svariati poeti, tra cui Orazio) tendevano a considerarlo un autoctono.
L’importazione delle barbatelle dalla Tessaglia nell’VIII secolo a. C., invece, come è più verosimile, giustificherebbe la genesi del nome esotico, (Hellenico o Vitis Ellenica, poi ispanizzato in Aglianico sotto gli aragonesi) alla base del mito del Falerno (il vino più caro ai romani) e di conseguenza la rinomanza di tutta l’area della cosiddetta Campania felix, ovverosia l’Ager falernum. La permanenza plurimillenaria in territorio italico motiva inoltre le numerose varianti biotipali, che lo rendono uno dei vitigni più diffusi tra Campania, Molise, Puglia e Basilicata, nelle tipologie Taurasi (ora Taurasi Rosso), Vulture e Taburno, e i vari cloni, da cui morfotipi come Aglianico del Sannio, Falerno del Massico e del Cilento, Molise Aglianico e altri.
Certo nessun vitigno negli ultimi anni ha raggiunto l’importanza dell’Aglianico del Vulture, che ha avuto il merito di guidare la riscossa della viticultura lucana. Merito innanzitutto del territorio: l’area dominata dal Monte Vulture (un tempo vulcano) nei dintorni di Melfi, tra le località di Lavello, Rionero in Vulture e Venosa, ha caratteristiche peculiari, dato che si tratta di un sottosuolo lavico. La massiccia presenza di foreste e parchi naturali conferiscono all’uva del Vulture un carattere unico, lontano dalle varianti pugliesi o campane, tanto da fare pensare a molti studiosi che gli uvaggi non fossero nemmeno imparentati.
Se si aggiunge a questo l’abitudine di coltivare le viti ad un’altezza collinare, tra i 300 e i 600 metri, con forti escursioni termiche (l’Aglianico, come è risaputo, è un uvaggio che soffre il caldo) si capisce l’eccezionalità di un frutto capace di raggiungere concentrazioni zuccherine cospicue (tra il 22 e il 23%) mantenendo comunque una fortissima acidità e una grande, a volte furiosa, spinta tannica.
Aglianico, un vino vigoroso
Un vino vigoroso, che il barrique peraltro riesce ad ammansire donando rotondità e morbidezza, e dalle spettacolari capacità di invecchiamento. Dato che molto spesso si tratta di vigne vecchie o recuperate, di media tra i 40 e gli 80 anni, e la complessiva robustezza della pianta suggerisce un limitato (se non inesistente) utilizzo della chimica in vigna, si può concludere che la rinascita vitivinicola lucana (dai più definita una vera e propria ‘rivoluzione’) poggia su basi solide. Viste le premesse, tuttavia, difficile orientarsi nel firmamento di cantine (molto spesso piccole o medio-piccole) che in questi anni hanno svolto un lavoro lodevole innanzitutto da un punto di vista ampelologico, accompagnandolo con una tale costanza di risultati che ormai non è improprio accostare questi vini (raffinati, prodotti in piccole quantità e dalla mano tipicamente artigianale) ai migliori rossi realizzati in Italia.
Vi consiglio quindi tre diverse interpretazioni, tutte rigorosamente DOC. Innanzitutto l’Aglianico del Vulture “Titolo” 2016 di Elena Fucci, ormai da anni ai vertici della denominazione. Unico vino prodotto da questa cantina nata nel 2000 a Contrada Solagna, comune di Barile, fortemente voluta da Elena, vignaiola-enologa, nella versione 2016 rivela tutta la sua stoffa. 12 mesi in botte di due passaggi, miracolosa concentrazione del frutto, al sorso possente, complesso, una stilettata fatta di spezie e mineralità sontuosa, con tannini magistralmente domati. Altra ragguardevole interpretazione di Aglianico del Vulture è quella di Terre degli Svevi, con il “Serpara” 2013: naso di sottobosco, bocca di ciliegie sotto spirito, una sorsata sorprendentemente soffice, piena e beverina. Concludo l’excursus con la doverosa menzione per lo splendido “Le Drude” 2008 di Michele Laluce, grande complessità di erbe aromatiche al naso, ampia pienezza di palato, rotonda, gustosa e ammorbante, che riesce nell’obiettivo apparentemente irraggiungibile di essere lana e velluto insieme.