Avrete sicuramente sentito e, crediamo, seguito la polemica che si è scatenata poco tempo fa a proposito di Flavio Briatore e la sua Crazy Pizza. Tutto è partito da uno scontrino pubblicato sui social, insieme al menu, in cui si mettevano in evidenza i prezzi delle pizze. Nello specifico, quella con il famoso Pata Negra.
Il dibattito si è infiammato quando Flavio Briatore ha snocciolato una serie di numeri per arrivare a dimostrare quale dovrebbe essere il reale costo di una pizza. In particolar modo della margherita.
“Come è possibile vendere una pizza margherita a 4 o 5 euro utilizzando prodotti di qualità?” – ha tuonato l’imprenditore. Tradotto: “Tutti voi pizzaioli che la vendete a quel prezzo, cosa ci mettete sopra?”
Risposta implicita: ingredienti di scarsa qualità!
Dai social ai salotti televisivi il passo è breve. Si scomoda addirittura Bruno Vespa, che nel suo Porta a Porta offre la possibilità di confronto-scontro a Gino Sorbillo, mediaticamente ancora il pizzaiolo di riferimento in termini di notorietà, e il Flavione nazionale. Un parapiglia moderato ed educato, terminato ai punti a favore di Briatore, senza di fatto nulla di concreto.
Perché in effetti il vero punto nessuno lo ha toccato, si è scatenata di pancia e di cuore una difesa a spada tratta della pizza, della sua storia, dell’arte del pizzaiuolo napoletano riconosciuta dall’Unesco, del prezzo popolare e democratico della margherita e della pizza in genere.
Il vero fulcro della questione che Briatore pone – discutibile nella forma in cui si è posto, piuttosto che nella logica del ragionamento – è come si possa vendere una pizza margherita a 4 o 5 euro.
Perché il caso Crazy Pizza non esiste? Te lo spieghiamo noi
Va fatta una premessa. Ovviamente urge un distinguo, rispetto quanto meno a una parte di coloro che hanno scagliato la pietra della vergona addosso a Crazy Pizza: parliamo del prezzo di una pizza servita al tavolo e non di una pizza consumata sul posto o portata a casa, pertanto il rischio di confronto diventa scivoloso sin dall’inizio. Chiaro che se iniziamo a sommare tutti i costi di sala, camerieri, servizio, utenze, le due strutture di costo diventano completamente differenti.
Ma volendo pur proseguire nel dibattito, raffreddati gli spiriti, il vero punto della disputa dovrebbe essere: il prezzo di vendita della pizza margherita a 4 o 5 euro può essere adeguato e corretto in termini di margine di guadagno che consente l’equa contribuzione alla copertura dei costi aziendali?
Non a caso si fa riferimento ad un insieme di doveri che definiscono una corretta gestione di un’attività di ristorazione (emissione dello scontrino, pagamento delle tasse, assunzioni regolari, adempimenti fiscali e tributari).
Nelle nostre pagine troviamo ogni mese i migliori professionisti del marketing della ristorazione, del menu engineering, che scrivono per ristoratori, pizzaioli ed imprenditori, mostrando quali debbano essere i criteri corretti di gestione di un’attività.
In fondo, quello che bisogna riconoscere a Briatore, almeno ad oggi, è il tentativo di fare business con la pizza. Cosa che non è riuscita agli italiani – che l’hanno inventata – in confronto, per esempio, agli americani, che ci hanno costruito degli imperi economici.
Alla ricerca di una pizza e di un’esperienza
Quando usciamo a mangiare – ormai il trend è talmente consolidato da ritenersi quasi obsoleto – non lo facciamo solo per soddisfare un’esigenza primaria. Cerchiamo un’esperienza, piccola o grande. Crazy Pizza offre questo, un’experience culinaria attraverso un cibo popolare.
Il concetto di experience è diffuso in tutti i settori. Basti pensare all’automotive, agli alberghi, ai negozi di abbigliamento… tutto non è più solo prodotto, ma esperienza di acquisto, di consumo. In quest’ottica, quindi, tutto il polverone sollevato da questa polemica che senso ha? Cosa ci dovrebbe insegnare? Che per emergere, in ogni settore – compreso quello della ristorazione e della pizza – ogni attività dovrebbe posizionarsi nella fascia alta di mercato. Oppure in una fascia adeguata al proprio target di riferimento.
È opportuno quindi prima individuare il target di riferimento cui ci si vuole rivolgere. E solo poi definire tutti gli aspetti relativi alla propria azienda (esattamente il contrario di quanto invece normalmente avviene). Da questa scelta dovrebbero dipendere tutte le valutazioni a cascata, quali sono a titolo esemplificativo la location, il layout e l’immagine del locale, il brand. E ancora, la scelta dei prodotti e il loro prezzo di vendita, la tipologia di servizio da erogare e il personale più adeguato per farlo…
Insomma, è necessario attraversare una serie di valutazioni – nella ristorazione così come in ogni ambito di attività – prima di avviare un nuovo business. Ovviamente se si punta alla remunerazione e alla longevità!
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