Le etichette sono dure a morire. Se per quelle impresse sulle bottiglie basta del tempo speso in una cantina umida per cancellare quasi del tutto. per altre parlo dei clichè presenti nel mondo del vino, serve molto di più.
Servono consapevolezza, studio e palato. Capacità attraverso cui smentire sia i paragoni improbabili che confrontano vitigni e territori differenti nel nome di una comune finezza gustativa, penso alla supposta specularità tra Borgogna e Etna, sia quei pregiudizi cui sono sottoposti molti vini del sud Italia.
Le varietà che crescono a queste altitudini e i vini che da esse derivano, sono oggetto di un’indiscriminata critica relativa alla mancanza di eleganza.
Sarà che i punti cardinali e le caratterizzazioni che essi impongono ai vini sono difficili da scardinare. Ma i vini del sud sono comunemente considerati come roba tosta.
Il vitigno Aglianico, eleganza e gusto
Una delle poche eccezioni? L’Aglianico. Quasi, perché anche vitigno Aglianico è oggetto di pregiudizi. Gli stessi che per legittimare l’eleganza, lo debbono comparare a qualcos’altro. Definire l’Aglianico come “il Barolo del sud” non credo sia una grande trovata.
Il paragone, di per sé piuttosto superfluo, finisce poi per imporre una gerarchica che finisce per penalizzare, come in questo caso, l’oggetto che in realtà si vorrebbe valorizzare. L’Aglianico è Agnelico e basta! Quasi, di nuovo.
No, non mi contraddico, anche se le variazioni sul tema Aglianico, più imposte dal terroir che dall’uomo, cambiano addirittura nel raggio di soli 100 km. Se l’Italia, per comodità visiva, viene paragonata a uno stivale, la zona di produzione dell’Aglianico corrisponde alla caviglia.
La Campania e Basilicata sono le patrie di una grande materia prima che tuttavia dal punto di vista della trasformazione non trova talvolta adeguata valorizzazione. Per fortuna l’eccellenza è custodita dal lavoro di molti produttori che sanno come valorizzare i terroirs migliori. Come quelli dell’Aglianico del Vulture in Basilicata e quelli dell’Aglianico del Taburno e dell’Aglianico Taurasi in Campania.
Passando dalla geografia alla storia, le origini del nome di questa varietà paiono riconducibili alla parola “ellenico“, tesi solo in parte riconosciuta.
L’origine di questo vitigno
In attesa di maggiori certezze sulle radici etimologiche, quelle vitate sono certissimamente ficcate nei terreni di origine vulcanica per le piante del Vulture. Mentre quelle del Taurasi affondano in un puzzle di terreni di diversa matura. A questo si aggiungono, quali ulteriori elementi di definizione del gusto dei vini di queste parti, altitudini che arrivano fino a 8-900 metri slm, grandi diversità tra le stagioni ed escursioni giorno e notte molto evidenti.
Le etichette prodotte in questa caviglia dello stivale sono perciò in grado di prendere a calci i pregiudizi sia sulla presunta mancanza di finezza da parte dei vini del sud, sia gli eventuali paragoni con altri vitigni.
Non si può infine non parlare della capacità che il vitigno Aglianico ha di evolvere in bottiglia.
Se il gusto di un Aglianico giovane è spesso austero e quasi scostante, anche in virtù di quella sapidità che corre lungo tutto il sorso, dopo anni in bottiglia lo stesso vino è in grado di svelare un’eleganza contraddistinta da note terrose che vanno a donare complessità a un frutto che risulta essere sempre guizzante e succoso.
Le aziende consigliate
Il tempo e l’importanza che questo fattore esercita sulle capacità espressive del vitigno oltre che, come detto, nel bicchiere si manifesta anche in fase produttiva.
La lunghezza dell’affinamento per l’Aglianico del Vulture e per quello di Taurisi parte da una soglia base di 3 anni, parte dei quali trascorsi in legno.
Nelle versioni Riserva infine gli anni salgono a 4 per il Taurasi e addirittura a 5 per l’Aglianico del Vulture. A tavola l’Aglianico non fatica a trovare partner specie con preparazioni a base di carne di manzo, agnello e persino cacciagione sia essa da pelo o da piuma.
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