L’antica civiltà egizia fiorì sulle sponde del fiume Nilo già nel III millennio a.C. per poi confluire nell’orbita politica dell’Impero romano nel 30 a.C.
In Egitto, fin dalle epoche più remote, la vita della fauna e della flora e l’esistenza stessa degli uomini sono state legate al fiume e alle sue inondazioni fertilizzanti. Questo è il senso della famosa definizione dell’Egitto come “dono del Nilo”, formulata dallo storico Erodoto (V secolo a.C.). Infatti, ad eccezione di pochi laghi e di alcune oasi nel deserto libico, la vita lontano dal fiume era impossibile.
Il Nilo crea un’oasi lunga migliaia di chilometri tra due ali infuocate di sabbia. Il possente corso d’acqua (circa 6500 Km) è costituito inizialmente da due rami, il Nilo Azzurro, che scende dai monti dell’Etiopia, ed il Nilo Bianco, che proviene dai laghi Alberto e Vittoria, nell’Africa Centrale.
Gonfiato ogni anno dalle piogge equatoriali, il fiume a giugno e luglio straripava, e ritirandosi, a novembre, lasciava uno strato di fango nero, il limo, così fertile da rendere possibili anche tre raccolti l’anno.
Terra e tradizioni
A questo legame con il Nilo, si rifà l’immagine degli egizi come uomini fortemente radicati alla terra e legati alle tradizioni, che assai di rado si avventuravano fuori dal loro paese, e che impararono presto ad estendere i campi irrigui scavando canali, e a trattenere le acque mediante argini e dighe, o a favorirne il deflusso, cercando di imbrigliare e sfruttare il grande fiume per la coltivazione.
Le piene erano un dono della divinità, tant’è che ancora oggi l’inondazione del Nilo è celebrata con una festa solenne. Il nome di Chemet, figlio di Chemi (terra nera), che gli egizi si erano dati, era la conseguenza di una convinzione fortemente radicata, ossia la fede che la propria origine fosse subordinata all’atto divino da cui scaturiva la fertilità.
Dalle inondazioni alla raccolta delle messi
Le inondazioni del Nilo, ricche di sostanze organiche, sono oggetto di formidabili trasformazioni fisiche e chimiche che danno molti vantaggi alla qualità del terreno che, grazie anche all’azione essiccante del sole, risulta già predisposto alla semina. Erodoto informa che i contadini non avevano bisogno di arare la terra.
Dopo che il fiume aveva impregnato d’acqua il suolo, nella stagione detta Akhet, bastava gettare i semi nei campi, durante la stagione detta Peret, e farli calpestare da una mandria di maiali, affinché penetrassero a sufficienza nella terra.
Poi non restava che aspettare la raccolta delle messi nella stagione detta Shemu. In seguito gli egizi elaborarono una sorta di aratro, formato da un lungo vomere di legno, governato da due manici ricurvi, e che due uomini facevano funzionare tramite l’ausilio del bestiame.
Dopo l’aratura si effettuava ovviamente la semina, momento nevralgico affidato ad un funzionario, lo scriba del grano, che valutava la preparazione del terreno e la qualità dei semi. Durante la mietitura veniva falciata solo la spiga, e non l’intera pianta, come accade ai giorni nostri. Successivamente le donne si occupavano della separazione dei chicchi dalla pula.
Una piccola parte del grano così ottenuto veniva consacrata allo spirito dei campi per favorire e mantenere la fertilità della regione; un’altra parte del raccolto veniva consegnata al proprietario della terra, e veniva organizzata una festa in favore del dio degli agricoltori. Un’altra festa era riproposta nei granai statali sotto il controllo degli scribi.
Il faraone
Il faraone era considerato padrone assoluto degli uomini e delle cose della propria terra, poiché in sé riuniva ogni potere, politico-amministrativo, giudiziario, militare e religioso. Inoltre, in Egitto più che altrove, era sentito il legame tra la divinità (Osiride-Ra, il sole) ed il faraone, ritenuto figlio del dio, e dunque dio egli stesso.
Anche sotto il profilo della dominazione terriera quindi, l’Egitto era dominio incontrastato del faraone che deteneva vastissime proprietà personali. La popolazione, che gli doveva obbedienza assoluta, lavorava per riempire i granai del faraone, e “l’ammontare del raccolto” (conto dei covoni) costituiva il parametro di riferimento per fissare in proporzione, la quantità di grano da versare.
Veniva effettuata una stima preventiva del raccolto in base alle inondazioni, e quindi sostanzialmente si aveva una tassazione di ciò che veniva raccolto e non della proprietà terriera.
Il pane nell’Antico Egitto
Grazie all’inondazione, foriera di ricchezza, era favorita la prosperità del grano, da cui gli egizi furono in grado di ottenere il pane, che già assumeva un aspetto simile a quello “moderno”, lievitato e cotto attraverso tecniche precise. Le spore di lievito cadevano sul composto formato da farina e acqua del Nilo, decomponendo lo zucchero in alcol e in acido carbonico, che faceva rigonfiare la pasta. Durante la cottura l’alcol prodotto durante la fermentazione scompariva totalmente, mentre l’acido carbonico rimaneva all’interno della tessitura porosa del pane.
Il processo della lievitazione fu scoperto solo nel XVII secolo, tuttavia gli egizi dovevano avere intuito che il pane non era un cibo accessorio, ma quello principale, tanto che nel mondo antico erano conosciuti come i “mangiatori di pane”. Arrivarono anche a rappresentarne una caratterizzazione culturale ed un’unità di misura: un gran numero di pani significava grande ricchezza e gli stessi “salari”, per centinaia di anni, vennero pagati in pani.
La cottura del pane
Il prodotto inizialmente conosciuto dagli egizi, un composto formato da grano e acqua, veniva cotto semplicemente su pietre arroventate o su carboni. Molto probabilmente, grazie alla cottura della pasta inacidita si ebbero esiti molto diversi, ed i risultati ottenuti fecero avvertire la necessità di passare ad un’altra tecnica di cottura. Essi pensarono così al forno, uno strumento cilindrico, composto da mattoni d’argilla, che presentava una strozzatura nella parte superiore, a forma di cono.
Sulla parte inferiore, caratterizzata da una grossa apertura a focolare, veniva posto un piano orizzontale, sul quale disporre la pasta da cuocere. La parte superiore del forno, invece, presentava un accesso più largo per favorire l’infornata e l’esalazione dei gas prodotti durante la cottura.
Al momento di infornare, la pasta inacidita era tolta dal proprio contenitore, salata, e manipolata ancora una volta. Successivamente, il recipiente destinato a contenere la pasta durante la cottura veniva cosparso di crusca. Per ottimizzare i tempi di preparazione dell’impasto, gli egiziani pensarono di serbare una parte dell’impasto inacidito, allo scopo di trapiantare i meccanismi della lievitazione in altra pasta.
Caratteristiche del prodotto
La peculiarità di questo antico sistema di panificazione non risiedeva solo nella raffinata tecnica di preparazione e produzione, ma anche nell’uso della magia ad essa collegata. La magia, infatti, non era reato presso gli egizi, e veniva applicata con grande fiducia. Solo nel 296 d.C., con l’imperatore Diocleziano, si ebbe la distruzione dei libri di chimica egiziani e si vietò ogni pratica che in qualche maniera riportasse all’uso di rituali magici, ma le tecniche di lavorazione del pane vennero conservate e tramandate anche ad altri popoli.
Secondo un’affermazione di Plinio il Vecchio, storico, scienziato e grammatico romano, dell’età imperiale, senza l’esempio egiziano non avremmo mai conosciuto il vero pane, poiché i romani vissero per lungo tempo producendo un intriso di farina, e vennero a conoscenza del beneficio che poteva essere tratto dalla cottura della pasta inacidita, solo dopo che la civiltà egizia confluì nell’orbita politica dell’impero romano.
Bibliografia essenziale
V. Minichini, L’eternità del pane. Piccola storia dell’alimento più antico, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2002.
D. Ambaglio, A. M. Rapetti, La storia, le storie, vol. I, Carlo Signorelli Editore, Milano, 1999
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