La pizza napoletana in Italia e all’estero. Intervista a Luciano Pignataro

Enrico Famà

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Abbiamo intervistato Luciano Pignataro autore del blog che porta il suo nome, per parlare di pizza napoletana. Ecco cosa è emerso!

Luciano, c’è un gran fervore nel settore della pizza napoletana, in Italia e nel mondo. Lei che vive a Napoli e che conosce intimamente il mondo pizza, che idea si è fatto?
La pizza è la vera novità gastronomica in Italia, qualcosa di intimamente nostro e che non abbiamo importato. È italiano perché non si è diffuso attraverso catene multinazionali come in tanti avevano previsto, ma perché è rimasto profondamente artigianale.
Cosa è avvenuto? Una cosa molto semplice: la maggioranza dei pizzaioli ha capito quello che non ha compreso la maggioranza della ristorazione, e che cioé puntare sull’abbassa buona politica. Una corsa alla materia prima di qualità, la gara a chi usa presidi Slow Food e prodotti tipici, ricerche sugli impasti, aperture di bei locali con liste di vino e di birre. La pizza, pur restando un alimento popolare, è il lusso che tutti si possono concedere.
Per una famiglia è come andare in trattoria un tempo, piace ai bambini, è veloce. Insomma è una preparazione ancestrale con il forno a legna tremendamente moderna. Faccio spesso il paragone tra quello che è avvenuto con la pizza negli ultimi anni con quello che è avvenuto con il vino negli anni ’90. La risposta in entrambi i casi è stata la qualità. L’attenzione mediatica ha poi dato dignità a un mestiere che prima era considerato, a Napoli, l’ultimo gradino della scala sociale.

Si dice che la pizza napoletana sostituirà la pizza “italiana”. Cosa pensa Luciano Pignataro a riguardo?
Non è mai esistita la pizza italiana.
Esistono diverse scuole che si sono affiancate alla scuola napoletana. C’è il filone veneto con Padoan e Bosco sopra tutti, che ha avuto il grande merito di mettere l’accento sulla qualità e sulla necessità di imporre pizze digeribili sdoganando sulla pizza qualsiasi cibo. C’è poi il filone romano che ha fatto uscire gli appassionati da vecchi incubi grazie a Bonci, Callegari, Casa, tanto per fare qualche nome e che adesso vede già la nuova generazione affacciarsi con Daniele Seu. In ogni regione adesso c’è una spinta alla qualità. Il modello napoletano rispetto agli altri ha il vantaggio di essere uno stile identitario di un’intera e popolosa comunità, ha una base di centinaia di protagonisti, è favorito sia dalla presenza di una ventina di pizzerie centenarie che sono custode della tradizione sia della naturale propensione ad emigrare in tutto il mondo. Pizzaioli napoletani si trovano ovunque, in Italia come in Giappone, in Cina come in America e Sud America, in Australia come a Dubai. È una pizza legata a una città molto conosciuta, non al nome di qualcuno.
Questa è la sua forza evocativa che però ha la sua ragione nel lavoro di ricerca di Enzo Coccia iniziato quasi vent’anni fa, nella capacità mediatica di Gino Sorbillo, nella pignoleria materica di Franco Pepe, nel modello di pizzeria dei Fratelli Salvo e tanti tanti altri ancora. E c’è tanto da scoprire con la generazione dei trentenni e dei ventenni. Nei campetti di periferia sono al lavoro campioni che presto saranno alla ribalta nazionale. Basta avere la pazienza di non fermarsi ai nomi più famosi.

C’è un’esplosione di pizzaioli emergenti molto abili nel loro lavoro, ma anche nel promuoversi attraverso i social. Sarà un “effetto Sorbillo”?
Certo, l’effetto Sorbillo ha pesato molto sul comportamento dei giovani. Oggi io non conosco categoria più social dei giovani pizzaioli. Sono quasi tutti giornalisti in erba, sono perennemente collegati, trasmettono quel che fanno, ti rispondono o ti cercano in chat. Trovo tutto questo molto positivo. La figura del vecchio pizzaiolo chino ad ammaccare fa nostalgia, ma sicuramente appartiene al passato. Il futuro sono questi giovani, con i loro eccessi.
Ma vivaddio, quale giovane non vive di eccessi?

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La pizza comunque dà lavoro a molti giovani che, stimolati anche dal successo dei loro coetanei, vogliono imparare questo mestiere. Con la sua esperienza, quali consigli darebbe a questi ragazzi?
Uno su tutti: il successo non si misura con i like e le recensioni, ma con i clienti che ogni giorno riempiono la pizzeria. Vede, c’è una differenza profonda tra un ristorante e una pizzeria. Il mercato della clientela del primo può essere anche internazionale (pensiamo ai trestellati o al top della 50Best) mentre anche il mercato della più famosa delle pizzerie è di prossimità. La concorenza è spietata, bisogna aggiornarsi. Dunque il mio consiglio è curare la clientela, sapere che il successo ha tempi lunghi e che è necessario studiare sempre.
Non fermarsi, girare per ristoranti quando si è liberi, visitare le altre pizzerie.

E finalmente ci parli del cornicione, ma la gara a chi lo fa più grande continua?
Beh è chiaramente una moda che dimostra come anche nel cibo niente è per sempre. Prima il cornicione si buttava e prima gli scugnizzi aspettavano che i signori li lasciassero nei piatti per prenderli. Oggi sono soffici e leggeri e sono il tratto distintivo di tanti giovani pizzaioli che hanno ragionato sugli impasti. Credo sia bello oggi poter scegliere tra diverse scuole di pensiero perché, ripeto, il confronto è sulla qualità.


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