Nozioni per comandamenti. Le scambiano spesso coloro che frequentano i corsi di avvicinamento al vino con mente vuota e non con mente aperta. Concetti che, per mancanza di rielaborazione personale, di curiosità e persino di talento, diventano dogmi se non addirittura veri e propri comandamenti.
Non bisogna poi stupirsi quando nella liturgia della degustazione vengano recitati elenchi infiniti di note prese a presto da sensi altrui, piuttosto che da quelli propri. Il gusto di persone che appartengono a questa categoria, che potremmo chiamare di “gustatori per interposta persona”, si nutre quasi esclusivamente di stereotipi gustativi, il carciofo non si abbina, alimentando al tempo stesso quelli linguistici; su tutti quello della mineralità. Parola più “naturale” se riferita all’acqua, oggi la mineralità sembra il nuovo comandamento del degustatore moderno. Personalmente preferisco sostituire a questo termine quello di sapidità.
Aspetto maggiormente conosciuto da tutti, la percezione del sale nel vino è in parte attribuibile alla conformazione geologica dei terreni su cui crescono le piante che daranno origine a quella determinata etichetta. Le rocce che meglio di altre riescono a conferirle questa sensazione, sono quelle di natura vulcanica. In Italia sono diffuse da nord a sud, interessando tanto i vini rossi quanto i bianchi. A quest’ultima categoria appartiene, siamo in provincia di Verona, il Soave.
Sul campanello il nome ricorda qualcosa di delicato e quasi ultraterreno. Le ‘fondamenta’ di casa Soave, tecnicamente terreni tufacei di origine vulcanica mescolati a calcare, richiamano invece, almeno nell’immaginario collettivo, scenari sotterranei, scuri, sulfurei, con un qualcosa d’infernale.
Nonostante l’antagonismo tra bianco delle uve e nero di suoli, il Soave è un vino basato sull’unione. Innanzitutto quella tra i vitigni, visto che è spesso composto da un assemblaggio di Garganega (buccia spessa e intensamente gialla, pochi profumi, ma grande struttura) e Trebbiano di Soave (varietà che conferisce al vino ulteriore sapidità). L’ensemble di grappoli e suoli permette al vino di assumere quelle sfumature sapide che fanno pensare ad alcuni vini bianchi del nord Europa. Nonostante i parallelismi tuttavia il Soave è assolutamente unico. Lo sancisce una personalità che nel tempo gli ha permesso di guadagnarsi prima la Doc poi addirittura la Docg, denominazione che tutela la variante “superiore” (si chiama così il Soave ricavato da piante poste in zone collinari), senza contare la sua versione morbida, anche se mai smaccatamente zuccherina, che prende il nome di Recioto di Soave (per ottenere questa etichetta le uve sono fatte appassire per diversi mesi sui graticci). Tutto questo ha fatto sì che questo bianco marcatamente salato, salisse sempre più in alto nelle classifiche di gradimento. Sale oggi ma sale anche domani. Non parlo d’incremento della sapidità, ma del fatto che un’altra qualità ascrivibile a questo vino è quella di poter vantare grandi capacità d’invecchiamento in bottiglia. Se ce la fate a tenerle chiuse!
Il Soave, indipendentemente dalla tipologia, è un risorsa praticamente inesauribile in rapporto all’abbinamento. Chi dice che sia il migliore accostamento con il notoriamente ostico uovo e preparazioni annesse. Personalmente lo trovo superbo con le verdure di primavera, per quel suo saper contrastarne la dolcezza, penso ai piselli o alle fave, grazie alla sua sapidità. Lo stesso vale per i formaggi e, in particolar modo con la mozzarella; vaccina con un Soave giovane e di bufala con uno più adulto. Sapore di sale dicevamo? Il pesce e gli abbinamenti a esso legati navigano in buone acque, se nel bicchiere troviamo il Soave. Un vino in grado di non celare con la sua struttura esile, ma neppure evanescente, il sapore delicato di un pesce bianco di lusso come il San Pietro, senza dimenticare che la sapidità di questo vino si lega molto bene ai molluschi, seppia o calamari che siano, ma anche alla dolcezza raffinata degli scampi.
Vulcanico e sapido, in una parola: Soave
Luca Gardini